L’estate che ho ucciso mio nonno- di Giulia Lombezzi, un romanzo potente, lucido e dolorosamente autentico
- 26 mag
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 27 mag
“Ci sono estati che ti cambiano la vita. E poi c’è quella in cui uccidi tuo nonno.”

Ci sono libri che ti piacciono. E poi ci sono libri che ti fanno compagnia anche quando li hai chiusi. L’estate in cui ho ucciso mio nonno per me è stato questo secondo tipo. Un romanzo che mi ha guardata dentro, senza chiedere il permesso. Non so se capita anche a voi, ma a volte una storia tocca un nervo scoperto, come se l’autore avesse sbirciato nella tua memoria, nelle stanze più nascoste della tua adolescenza. Ecco: Alice è stata per me uno specchio e una finestra insieme. Leggendo la sua voce così nitida, così vera, ho risentito quella rabbia che si prova da ragazzi, quando vedi le ingiustizie degli adulti e non hai ancora gli strumenti per combatterle. Ho provato quella solitudine afosa che solo certe estati ti sanno cucire addosso. E soprattutto ho sentito la frustrazione di vedere una madre spegnersi, diventare piccola accanto a qualcuno che dovrebbe solo volerle bene.
Quando ho iniziato L’estate in cui ho ucciso mio nonno, non mi aspettavo un romanzo che mi scavasse dentro con così tanta precisione. La scrittura di Giulia Lombezzi è come un bisturi: affilata, clinica, eppure incredibilmente empatica. È uno di quei libri che non si leggono, si attraversano. Come un temporale d’agosto: lo senti arrivare, ti investe con tutta la sua forza e alla fine ti lascia lì, fradicia e diversa.
Una protagonista che si fa voce di molte adolescenti
Alice, sedici anni, è la voce narrante di questa storia. Un’adolescente intelligente, ironica, piena di rabbia e tenerezza repressa. Vive a Milano, in un appartamento dove il silenzio è diventato il linguaggio dominante, soprattutto da quando il nonno Andrea è entrato nella sua quotidianità come un bulldozer. Il titolo può trarre in inganno: non si tratta di un thriller, né di un giallo. La “morte” a cui si allude è metaforica, simbolica, anche se durante la lettura non mancano tensioni che ti lasciano con il fiato sospeso. L’“omicidio” che Alice racconta è un atto di ribellione, un grido disperato di una ragazza che vuole salvare sua madre da una relazione di sudditanza psicologica con un uomo manipolatore.
Una famiglia disfunzionale, tra trauma e sopravvivenza
Giulia Lombezzi costruisce una dinamica familiare inquietante e fin troppo reale. Il nonno Andrea è un personaggio disturbante: il classico uomo carismatico, intelligente, ma profondamente narcisista. Dietro una maschera di bonarietà si nasconde una figura che ha ferito profondamente la figlia Marta – la madre di Alice – e continua a farlo, usando l’affetto come strumento di controllo. Quello che mi ha colpito di più è come la scrittrice riesca a raccontare l’abuso psicologico senza mai renderlo esplicito, senza scene eclatanti. È tutto nei dettagli: uno sguardo, una frase sussurrata, un gesto. Un dominio che si esercita nella quotidianità, attraverso l’umiliazione sottile, la dipendenza emotiva, l’annullamento dell’identità.
Una scrittura viva, giovane, necessaria
La voce di Alice è uno dei punti di forza del romanzo. È sferzante, autentica, spesso sarcastica. Parla come parlano davvero i ragazzi di oggi, ma senza mai cadere nello stereotipo o nella caricatura. È una voce che sa essere fragile e feroce, e che riesce a raccontare il dolore con lucidità. Lombezzi ha un talento raro: sa entrare nella testa dei suoi personaggi, ma soprattutto sa restituirci il caos e la bellezza delle emozioni adolescenziali, senza filtri, senza giudizi. Non fa sconti, non consola, ma offre qualcosa di molto più prezioso: riconoscimento. Leggere Alice è come rivedersi – anche solo in parte – nei propri sedici anni, in quelle estati interminabili in cui tutto sembra poter cambiare da un momento all’altro.
Un romanzo che scuote e rimane
L’estate in cui ho ucciso mio nonno è un romanzo che parla di libertà, di crescita, ma anche di quanto possa essere difficile rompere i legami con il passato, specialmente quando quei legami portano il nome di “famiglia”. È un libro che ti costringe a guardare in faccia certe dinamiche che spesso preferiamo ignorare. E lo fa senza retorica, con uno stile asciutto, feroce e poetico insieme. Chi si aspetta una storia di riconciliazione rimarrà sorpreso. Questo è un romanzo che sceglie la verità, anche quando fa male. Che scava nel dolore, ma senza spettacolarizzarlo. E che lascia uno spazio – minuscolo ma prezioso – per la speranza. L’estate in cui ho ucciso mio nonno è una lettura necessaria. Per chi è cresciuto in famiglie dove l’amore era confuso con il controllo. Per chi ha dovuto imparare troppo presto a difendersi. Per chi sa che a volte “uccidere” non significa altro che sopravvivere. Un romanzo che consiglio senza riserve. Ma con un avvertimento: preparatevi a sentire tutto. Anche quello che avevate dimenticato. Ci sono pagine che mi hanno stretto la gola. Non tanto per la violenza – che non è mai plateale – ma per la sottile, terribile verità che contengono: a volte, il male ha il volto di chi ci ha cresciuti. E non è facile accettarlo. Non è facile nemmeno scriverlo. Ma Giulia Lombezzi lo fa con un coraggio e una lucidità che mi hanno lasciata ammirata.
Il romanzo si distingue per la sua scrittura incisiva e diretta, capace di cogliere le sfumature emotive dei personaggi e di restituire la loro complessità interiore. L'autrice utilizza un linguaggio contemporaneo, ricco di riferimenti alla cultura pop e ai social media, creando un ponte tra il mondo dell'adolescenza e quello degli adulti. La narrazione in prima persona permette al lettore di entrare nella mente di Alice, condividendo le sue inquietudini, le sue paure e le sue speranze. Uno degli aspetti più potenti del libro è la sua capacità di trattare temi delicati come l'abuso psicologico, la manipolazione e il dolore familiare senza cadere nel melodramma. La storia è intrisa di ironia amara, che alleggerisce la gravità degli eventi e rende ancora più incisiva la critica sociale sottesa al racconto. L'autrice non offre soluzioni facili o lieto fine consolatori, ma invita il lettore a riflettere sulle dinamiche di potere all'interno della famiglia e sulla difficoltà di liberarsi da legami tossici. Una lettura che consiglio a chi cerca una storia intensa, autentica e provocatoria, capace di far riflettere sul significato dell'amore familiare e sulla forza di chi, come Alice, lotta per trovare la propria voce in un mondo che spesso sembra volerla soffocare.
Giulia Lombezzi, nata a Milano nel 1987, è una drammaturga, sceneggiatrice e scrittrice che sta rapidamente conquistando un posto di rilievo nel panorama letterario italiano. La sua formazione artistica include studi alla Scuola Teatro Arsenale e una solida esperienza come attrice e regista teatrale. I suoi testi sono stati rappresentati in Italia, Svezia, Polonia e Iran, testimoniando la sua capacità di comunicare emozioni universali attraverso diverse culture e linguaggi. Nel 2017, Lombezzi ha vinto una borsa di studio per la Scuola di Scrittura Belleville con il racconto La vita è un gioco, e l’anno successivo ha vinto il concorso “Il titolo e altri racconti” con Fuga in fa maggiore. Il suo esordio nel romanzo è avvenuto con La sostanza instabile (Giulio Perrone Editore, 2021), un'opera finalista al Premio Calvino 2020 e vincitrice del Premio Kihlgren Opera Prima nel 2022. Il suo secondo romanzo, L’estate che ho ucciso mio nonno (Bollati Boringhieri, 2025), conferma la sua maturità narrativa e la sua capacità di esplorare temi complessi con una scrittura incisiva e coinvolgente. Oltre alla scrittura, Lombezzi è attivamente coinvolta nell'insegnamento e nella formazione di nuove generazioni di scrittori. Insegna presso la NABA e la Scuola Belleville di Milano, nonché alla Scuola Holden di Torino, fondata da Alessandro Baricco. È anche tra gli autori del podcast di Storytel Mi dica tutto, dove esplora il mondo della scrittura e della narrazione.
Mi porto dietro soprattutto questo: la sensazione che questo libro non volesse raccontare una storia, ma un sentimento. Un grido silenzioso. È una lettura che non consola, ma accompagna. Che ti dice: “So cosa hai visto, so cosa hai vissuto, anche se non lo hai mai detto a nessuno”. E questa, per me, è la potenza della letteratura. Chi ama le storie che entrano in punta di piedi e poi restano per sempre, qui troverà pane per il cuore.
La sua scrittura si distingue per l'uso dei dialoghi, una tecnica che affonda le radici nella sua formazione teatrale. Lombezzi afferma di non voler consolare o insegnare attraverso le sue opere, ma piuttosto di voler far ridere e far pensare, offrendo al lettore uno specchio in cui riflettersi e interrogarsi. La sua capacità di affrontare temi delicati con ironia e profondità rende ogni suo libro una lettura intensa e stimolante.
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