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Giusy Laganà

Due libri impedibili da leggere quest'estate

Se la strada potesse parlare – di James Baldwin, un miracolo accorgersi quando qualcuno ti ama

È strano a cosa ci si aggrappa per superare il terrore quando il terrore ti circonda. Proprio come Tish che lotta disperatamente per salvare il suo fidanzato imprigionato per accuse di stupro che non ha commesso a una donna bianca. Quando si è neri e vivi ad Harlem, scrive James Baldwin, è tutto più complicato. L’ingiustizia che la strada nasconde e il razzismo che detta le sue terribili leggi, raccontano l’amore disposto ad ogni costo pur di essere protetto.


In Se la strada potesse parlare, James Baldwin ci racconta una struggente storia d’amore in un mondo fatto di dolore e ingiustizia. Attraverso gli occhi di Tish, una diciannovenne bella e innamorata, conosciamo Fonny, il giovane scultore da cui aspetta un figlio. I due sono cresciuti insieme, nello stesso quartiere, insieme hanno giocato, si sono rincorsi, hanno fatto l’amore ridendo e riso facendo l’amore. Il racconto mescola romanticismo e tristezza. Tish e Fonny avevano programmato di sposarsi ma Fonny viene accusato ingiustamente di aver stuprato una donna portoricana.


Unico nero in un confronto all’americana, viene riconosciuto colpevole e incarcerato. Fonny è innocente eppure spetta a lui e alla sua famiglia dimostrare – “e pagare per dimostrare” – la sua innocenza. Tish tenta con ogni mezzo di sostenere l’uomo che ama mentre la gravidanza diventa sempre più visibile. Come il blues – dolce, malinconico e pieno di verità – questo capolavoro letterario ci colpisce, prima di tutto, emotivamente. Ci sono la rabbia e il dolore, ma sopra ogni altro sentimento a dominare è l’amore – l’amore potente di una donna per il suo uomo e l’amore avvolgente di una famiglia disposta a tutto, fino all’estremo sacrificio.

La forza della narrazione di Baldwin e la schiettezza nel racconto delle situazioni e dei personaggi fanno di questo romanzo un vero e proprio classico del Novecento.

Da Se la strada potesse parlare è stato tratto l’omonimo film di Barry Jenkins, regista premio Oscar per Moonlight.


La città che ride – di Temim Fruchter. Quattro donne e un segreto di famiglia, uno spirito oltre il

tempo, un amore indimenticabile, l’energia dei desideri


“Tutti sanno che la mia profondità di sentimenti non è comune. Perciò questo doveva essere il compito perfetto per me, o il più difficile. Che cosa so, dopotutto? Che amo con più facilità della mia specie. Che amo con facilità. Che amo e basta. Che amerei in modo così folle, anche solo una volta”

Avviso ai lettori: questo libro mi ha fatto diventare isterica perché non capivo dove volesse andare a parare ma poi qualcosa si è schiuso, così dal nulla e lo ho adorato. È strano, lo ammetto. Mi ha ricordato per molti aspetti Ragazze elettriche di Naomi Alderman ma qui, in queste pagine, s’incontra una dimensione più ancestrale. Tra le donne della famiglia di Shiva Margolin si nasconde un segreto che freme per essere portato alla luce. È il segreto di un’antica leggenda; di un villaggio polacco che ha perso la risata; di un messaggero divino dagli occhi verdi che viaggia attraverso i secoli. Qui si fondono folklore yiddish, mondo queer e spiritualità in un’alchimia letteraria in grado di sprigionare il più grande e pericoloso potete: quello di una donna, finalmente libera, che ride –o forse grida- da sola nel bosco.


“Qualcuno mi chiama mercuriale. Forse è così, ma io metto l’eccesso dove sembra voler andare. I

miei istinti sono più vecchi di alcuni dei vostri pianeti, dopotutto”


Quando Shiva, giovane newyorkese, ricostruirà il passato della sua famiglia, seguendo le tracce di un misterioso spirito, il dibbuk, svelerà ciò che troppo a lungo è rimasto nascosto. Ritroverà così le lettere della bisnonna Mira, a cui venne impedito per sempre di ridere, le foto di sua nonna Syl, che parlava la lingua degli uccelli, e l’abbraccio di sua madre Hannah, dedita a celebrare più la morte che la vita. È grazie a questo cortocircuito familiare che a Ropshitz risuoneranno di nuovo risate perdute, che il messaggero farà ritorno in forme sempre più cangianti, e che Shiva infine guarderà negli occhi il proprio destino. Città che ride, esordio di Temim Fruchter, fonde folklore yiddish, mondo queer e spiritualità in un’alchimia letteraria in grado di sprigionare il potere più grande e pericoloso di tutti: quello di una donna, finalmente libera, che ride – o forse grida – da sola nel bosco.


Città che ride, il libro di esordio di Temim Fruchter, (tradotto in italiano da Gabriella Tonioli per Mercurio) trasporta il lettore all’interno della cultura ebraica vista da un punto di vista molto interno e insieme molto eterodosso e molto contemporaneo. è una scrittrice queer non binaria ed ex batterista dei The Shondes, una band indie punk di Brooklyn, New York.



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