La dolcezza del sopravvivere – e la grazia del ricominciare
- Giusy Laganà

- 8 set
- Tempo di lettura: 6 min

È difficile raccontare cosa accade davvero quando si legge L’imperatore della gioia. Non parlo della trama – che pure è intensa e bellissima – ma di quello scarto emotivo che ci coglie quando, nel buio, qualcuno accende una luce tenue e calda. La storia di Hai e Grazina è proprio questa luce. Una narrazione che non cerca l’effetto facile, ma affonda con delicatezza nei nodi più umani: la solitudine, il trauma, la possibilità di essere amati anche quando ci sentiamo imperdonabili.
Hai ha diciannove anni e nessun orizzonte. East Gladness – luogo fittizio eppure vividamente reale – fa da sfondo al suo gesto estremo, interrotto all’ultimo istante da una voce. Quella di Grazina, una vedova lituana che porta addosso le cicatrici della guerra e dell’esilio. L’incontro tra questi due mondi così distanti è ciò che innesca il vero miracolo narrativo del romanzo: non la redenzione eroica, ma la lenta, incerta, ostinata riscoperta della tenerezza.
Ocean Vuong, con la sua scrittura poetica e pudica, tratteggia un’America diversa: non quella delle promesse mantenute, ma quella degli immigrati, degli emarginati, dei sopravvissuti. Eppure, proprio da questa America nascosta nasce una nuova possibilità di salvezza. Non quella delle grandi conquiste, ma della gentilezza quotidiana, delle mani che si tendono senza aspettarsi nulla in cambio.
Ho amato profondamente il modo in cui Vuong racconta la memoria del dolore senza spettacolarizzarlo. Grazina non è un simbolo, è una persona. Hai non è un eroe, ma un ragazzo che impara a camminare di nuovo, con piccoli passi incerti. Tra loro nasce un affetto quasi sacro, che passa per i gesti minimi: il tè, i racconti spezzati, la cura reciproca. E in questi gesti, Vuong riscrive il mito americano in chiave radicalmente umana. La vera conquista non è il successo, ma la possibilità di "cercare di essere una brava persona", come dice Grazina. Nulla di più, nulla di meno.
Una delle qualità che più mi ha colpita de L’imperatore della gioia è il modo in cui Ocean Vuong tratta il dolore: non come una ferita da superare, ma come una lingua comune. Hai e Grazina non si salvano nonostante il dolore, ma attraverso di esso. Le loro storie – così diverse eppure simmetriche – mostrano quanto la sofferenza, quando condivisa, possa diventare terreno fertile per la comprensione e, persino, per l’amore. Il dolore, in questo romanzo, non è mai sterile. È una sostanza viva, che si trasforma, si eredita, si trasmette. Grazina sogna ancora la guerra e Hai non riesce a perdonarsi le bugie dette alla madre. Entrambi, a modo loro, sono sopravvissuti: non tanto alla violenza del mondo, ma alla solitudine che ne deriva.
In questo senso, Vuong costruisce una trama letteraria densa e stratificata, dove le citazioni non sono meri omaggi colti, ma chiavi interpretative del vissuto dei personaggi. Gita al faro di Virginia Woolf ritorna più volte come simbolo del tempo che scorre e della memoria che permane, della fragilità delle relazioni familiari e della tensione tra ciò che è detto e ciò che resta taciuto. C’è, in Hai, lo stesso tipo di silenzio che Woolf attribuisce alla madre: un’assenza che pesa quanto una presenza.
Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, invece, diventa il libro-orizzonte per Grazina, che riconosce nel suo “così va la vita” una verità spietata ma necessaria. Vonnegut, con il suo sguardo ironico e disilluso, le offre un modo per sopravvivere al trauma senza negarlo. Anche Hai, lentamente, impara questa lezione: non c’è bisogno di "aggiustare" il passato per andare avanti, ma solo di imparare a conviverci con dignità. Queste letture, che i personaggi si scambiano e condividono, sono veri e propri strumenti di sopravvivenza emotiva. Vuong ci ricorda che la letteratura può essere ancora – come scriveva Kafka – “l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”. In un mondo che spesso anestetizza il dolore, L’imperatore della gioia lo prende per mano e gli dà un posto a tavola. E così facendo, ci insegna che non siamo soli nel nostro soffrire.
L’imperatore della gioia è un libro che resta. Resta nei silenzi tra i capitoli, nei dettagli struggenti, nei dialoghi che sembrano sospesi tra la vita e la poesia. È un romanzo che consola senza mentire, che accoglie il dolore e lo trasforma in qualcosa di condivisibile. Perché alla fine, forse, è questo il segreto: sopravvivere insieme è meglio che farlo da soli. Non è un romanzo nel senso tradizionale del termine. È un atto d’amore e di sopravvivenza, una lettera scritta da un figlio alla madre, e al tempo stesso un grido che attraversa il corpo, la memoria, l’identità, la guerra, la lingua. Ocean Vuong, poeta prima che narratore, costruisce un libro che sfugge a ogni categoria. È una confessione e una riflessione, un memoir e un poema, una narrazione frammentata ma potentissima, tanto intima da sembrare quasi rubata, come se il lettore sbirciasse qualcosa che non dovrebbe leggere – e invece è proprio lì che Vuong ci invita, a condividere la vulnerabilità nuda e disarmante della sua voce.
Come lettrice, sono rimasta colpita dalla delicatezza con cui Vuong sa raccontare il dolore senza mai trasformarlo in retorica. Parla di immigrazione, di razzismo, di identità queer, di violenza domestica, della tossicodipendenza e della perdita – ma non lo fa mai in modo didascalico o ideologico. Ogni tema è vissuto nel corpo del protagonista, attraverso esperienze che non cercano di insegnare nulla, ma che chiedono solo di essere viste, accolte. Desidero ringraziare la casa editrice Guanda per l’opportunità preziosa di aver partecipato, insieme ad altri creator, al firma copie di sabato. Un momento speciale che, in via straordinaria, mi ha permesso anche di porre alcune domande direttamente a Ocean Vuong — un’occasione unica di confronto con una delle voci più intense della letteratura contemporanea.
Lo stile è lirico, ipnotico, sensuale, a tratti quasi visionario. Ci sono frasi che sembrano scolpite nella carne, paragrafi che si leggono come versi, immagini che restano impresse a lungo dopo aver chiuso il libro. Ma non è mai una scrittura “bella” fine a sé stessa. È una bellezza che nasce dalla necessità, che scava, che cura. La lingua è al tempo stesso gabbia e liberazione. Ocean Vuong riesce nell’impresa rara di rendere la propria esperienza singolare – queer, migrante, figlio di una donna sopravvissuta alla guerra – qualcosa di profondamente universale. Tutti, leggendo L’imperatore della gioia, possiamo ritrovarci in quel desiderio disperato di essere visti, compresi, abbracciati. Di essere, anche solo per un istante, “meravigliosamente vivi”.
Uno dei messaggi più profondi che L’imperatore della gioia vuole veicolare è che la vulnerabilità è un atto di resistenza. In un mondo che celebra la forza, il controllo, il silenzio, Vuong ci dice che mostrarsi fragili, raccontare il proprio dolore, amare nonostante tutto, è una forma radicale di sopravvivenza.
Non è un libro facile, né leggero. Richiede attenzione, disponibilità, apertura. Uno di quei testi che cambiano il modo in cui guardi al mondo, alla tua famiglia, al tuo passato. Un libro che consola, anche mentre fa male. Che ti costringe a rallentare, a sentire, a respirare con più consapevolezza. Ocean Vuong non scrive solo con la penna, ma con tutto il corpo, con tutta l’anima. L’imperatore della gioia è un libro da rileggere, da sottolineare, da portare con sé nei momenti in cui ci si sente fragili, inadeguati, soli. Perché, come scrive Vuong:
“A volte essere disarmati è l’unico modo per sopravvivere.”
Siamo brevemente splendidi sulla terra. E anche in quel breve istante, possiamo trovare senso, connessione, bellezza.
Ocean Vuong
è nato nel 1988 in Vietnam e si è trasferito nel 1990 negli Stati Uniti; attualmente vive tra Northampton, in Massachusetts, e New York City, dove insegna alla NYU. Prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come cuoco, coltivatore di tabacco, badante domestico e cameriere in un fast food. Il suo romanzo d’esordio, Brevemente risplendiamo sulla terra (2020), è stato un evento letterario, tradotto in quaranta lingue e vincitore dell’American Book Award, del Mark Twain Award e del New England Book Award, oltre che finalista ˗ tra gli altri ˗ al National Book Award for Fiction. In Italia ha pubblicato anche la raccolta di poesie Cielo notturno con fori d’uscita (Whiting Award 2016, T.S. Eliot Prize 2017) e Il tempo è una madre (2023). L’imperatore della gioia è il suo secondo romanzo, il primo pubblicato con Guanda.
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