L'uso della foto - di Annie Ernaux e Marc Marie
- Giusy Laganà

- 24 nov
- Tempo di lettura: 2 min

Ci sono libri che non si limitano a raccontare: attraversano chi legge, insinuano una domanda dopo l’altra, e continuano a vibrare a distanza di giorni. L’uso della foto di Annie Ernaux, scritto a quattro mani con Marc Marie, appartiene senza dubbio a questa categoria. È un libro che mette in scena l’intimità senza mostrarla, il desiderio senza esibirlo, la malattia senza trasformarla in retorica.
La struttura è semplice eppure sottilmente rivoluzionaria: Ernaux e Marie fotografano gli abiti lasciati sul pavimento dopo i loro incontri amorosi e, partendo da quelle immagini, scrivono. Il corpo, sorprendentemente, non appare mai; ciò che restano sono le tracce — vestiti sgualciti, scarpe abbandonate, pieghe del tessuto che conservano la forma dell’assenza. Le foto diventano frammenti di un tempo già perduto, innesco di un racconto che non vuole ricostruire l’evento, ma ciò che l’evento ha smosso.
Questa scelta narrativa, così minimale e così visiva, è anche profondamente politica: Ernaux sottrae il corpo femminile allo sguardo diretto e lo restituisce attraverso la parola, l’unico spazio in cui può davvero autodeterminarsi. Nel momento in cui la scrittura prende avvio, l’immagine non vale più come testimonianza, ma come detonatore di significato.

Il libro è attraversato da un tema che Ernaux affronta sempre con una lucidità spiazzante: la malattia. L’autrice scrive in un periodo segnato dal tumore al seno, e la consapevolezza della vulnerabilità del corpo penetra in ogni pagina, senza mai sconfessare la vitalità del desiderio. Anzi, l’amore con Marc Marie si carica di una malinconia nuova, come se la passione fosse il contrappeso necessario alla finitezza.
Ciò che più colpisce, leggendo L’uso della foto, è il modo in cui Ernaux riesce a mettere in dialogo tre elementi — immagine, memoria, scrittura — senza che nessuno prevalga. L’immagine conserva, la memoria traduce, la scrittura restituisce. E tra questi tre livelli si apre uno spazio intimo, quasi segreto, in cui il lettore è invitato ad accomodarsi senza rumore.
Lo stile è quello inconfondibile di Ernaux: essenziale, nitido, affilato. Ogni frase sembra distillata, ogni parola scelta per la sua capacità di aderire alla realtà. Non c’è mai un compiacimento estetico; c’è, invece, un’ostinazione a dire la verità delle cose, anche quando fa male, anche quando tocca ciò che solitamente si lascia ai margini della narrazione.
Come lettrice, ho avuto la sensazione di assistere non tanto a un racconto, quanto a un gesto: il tentativo di fissare nella pagina la precarietà dell’esistenza. Come studiosa della forma autobiografica, ho trovato in queste pagine un laboratorio straordinario sul rapporto tra testo e ciò che lo precede — il reale, il vissuto, l’immagine.
Consiglio questo libro a chi cerca una lettura intensa, intima e formalmente originale, a chi ama la scrittura che interroga se stessa e i propri strumenti, e a chi riconosce nella memoria non un luogo da arredare, ma un territorio da attraversare con coraggio.
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