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Contro la performance continua: perché “Il mio anno di riposo e oblio” ci riguarda tutti-


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Ottessa Moshfegh scrive come se stesse incidendo la pelle dell’anima contemporanea con un bisturi affilato. Il mio anno di riposo e oblio non è semplicemente la storia assurda di una giovane donna bella, ricca e profondamente alienata che decide di passare un intero anno dormendo grazie a una combinazione surreale di psicofarmaci. È una riflessione feroce, straniante e disturbante sul peso della vita sociale, sull’ossessione per l’efficienza, e sulla ricerca di uno spazio in cui poter semplicemente non essere.


La protagonista, che volutamente resta senza nome, è il simbolo estremo della stanchezza contemporanea. Non una stanchezza fisica, ma una spossatezza dell’anima, fatta di ritmi serrati, obblighi sociali, falsità emotive e un'identità costruita per piacere agli altri. Ha tutto quello che la società le ha insegnato a desiderare — bellezza, soldi, un lavoro prestigioso nel mondo dell’arte — ma è completamente svuotata. Non vuole morire, ma non riesce più a sostenere il peso dell’esistere: per questo sceglie la sospensione. Il sonno diventa, in questo romanzo, un atto politico, una forma estrema di resistenza contro l'obbligo di partecipare, di essere produttivi, visibili, attivi.


C'è qualcosa di profondamente attuale e inquietante nella sua volontà di auto isolarsi. Viviamo in un’epoca iperconnessa eppure affollata di solitudini. La protagonista si taglia fuori da tutto e da tutti, anche da Reva, l’amica disfunzionale che rappresenta la mediocrità quotidiana, con le sue insicurezze e i suoi drammi tanto umani quanto trascurabili. L’isolamento diventa un laboratorio di decontaminazione: dormire, drogarsi, cancellarsi dalla propria stessa vita per provare, forse, a rinascere.


Nel libro, il tempo è un’ossessione. Quello che per molti è la misura del successo (quanto fai, quanto ottieni, quanto pubblichi, quanto produci), per la protagonista è un fardello da cui liberarsi. Decide di non avere memoria, né progetto. Rifiuta la narrazione lineare dell’esistenza e si rifugia in un presente statico, privo di eventi. Il suo corpo, sedato e addormentato, è l’unico luogo ancora abitabile, l’unico spazio che può controllare — o almeno così crede.


Moshfegh usa l’assurdo e il grottesco per criticare con cinismo feroce il culto dell’immagine, dell’efficienza, della felicità obbligatoria. Tutto ciò che ruota attorno alla protagonista — la psichiatra ridicola, l’amica bisognosa, i flirt insignificanti — è un’eco della vuotezza relazionale in cui ci muoviamo ogni giorno. Non c'è empatia, non c'è reale comunicazione. Solo ruoli, maschere, disfunzioni mascherate da normalità.


Il mio anno di riposo e oblio è un libro che lascia disorientati. Non c’è catarsi, non c’è redenzione nel senso classico. Ma c’è qualcosa di molto vero: il desiderio di spegnere tutto per ritrovare sé stessi. È una provocazione letteraria che ci costringe a chiederci: quanta parte della nostra vita è davvero nostra? Quante scelte sono autentiche e quante sono imposte da un mondo che ci vuole sempre attivi, felici, presenti, performanti?

Non è un romanzo da leggere con leggerezza. È una lente nera puntata sulla nostra società e sulle nostre stanchezze più profonde. Eppure, in modo paradossale, è anche una storia di sopravvivenza. Di rifiuto. E forse, in fondo, anche di rinascita.


Ho chiuso l’ultima pagina con un misto di inquietudine e meraviglia. Il mio anno di riposo e oblio è uno di quei romanzi che non si leggono semplicemente: si assorbono, si subiscono, ti restano addosso.

La protagonista – senza nome, fredda, bellissima e incredibilmente vuota – ha deciso di dormire per un anno. Non per stanchezza fisica, ma per un desiderio radicale di disconnessione, di cancellazione. In una Manhattan patinata e post-11 settembre, tra gallerie d’arte, pillole e cinismo, questa donna intraprende un "esperimento esistenziale" che è tanto assurdo quanto stranamente comprensibile.


Quello che mi ha colpita più di tutto è la scrittura di Ottessa Moshfegh: tagliente, ironica, senza sconti. Ogni pagina è una lama affilata che incide la superficie liscia dell’apparenza per mostrare cosa c'è sotto: noia, dolore, vuoto. Eppure mai in modo vittimista. È una lettura che ti costringe a riflettere sul senso del tempo, sull’identità e su cosa voglia dire “guarire” in una società che ci vuole sempre performanti, belli, attivi.

Non è un libro per tutti. Se cerchi empatia o trame rassicuranti, potresti rimanere spiazzato. Ma se ti piace la letteratura che disturba, che scava, che fa pensare anche dopo giorni, Il mio anno di riposo e oblio è un’esperienza potente. Mi ha lasciato addosso una strana pace, come dopo una tempesta.


Nel cuore di Il mio anno di riposo e oblio c’è un gesto estremo e profondamente politico: la decisione della protagonista di ritirarsi dalla vita. Non si tratta solo di dormire: si tratta di cancellarsi dal mondo, sospendere l’identità, interrompere la narrazione personale. In un contesto sociale in cui ogni individuo è costantemente sollecitato a essere visibile, produttivo, competitivo e performante, la sua scelta diventa una forma estrema di ribellione.


È un rifiuto dell’obbligo sociale alla felicità, della retorica del self-help, della crescita personale a tutti i costi. Mentre il mondo esterno spinge verso il continuo “miglioramento di sé”, lei compie un atto diametralmente opposto: si anestetizza, si chiude in casa, si lascia andare al vuoto. Ma non per abbandonarsi alla morte — bensì per proteggersi dalla vita così come le è stata imposta.


Questo sonno prolungato, indotto da cocktail di psicofarmaci, è un gesto lucido nella sua follia. È una negazione del tempo, dell’identità sociale, delle aspettative femminili, del consumo, della competizione. Mentre il mondo corre fuori, lei resta ferma. Si sottrae. È una provocazione profonda: può l’inazione diventare azione? Può il silenzio essere una forma di comunicazione? In un mondo dove tutto deve essere detto, condiviso, mostrato, l’invisibilità può diventare potere.


Il suo esperimento non è tanto un suicidio simbolico, quanto un tentativo di rinascita, di rigenerazione attraverso l’annullamento. Una decostruzione necessaria, violenta e paradossalmente vitale.

Moshfegh, con il suo stile secco e impietoso, ci consegna una protagonista disturbante ma autentica. E ci costringe a chiederci: quanto di ciò che facciamo ogni giorno è davvero una nostra scelta? E se il vero atto di coraggio, oggi, fosse semplicemente fermarsi?


Ottessa Moshfegh è una scrittrice americana nata a Boston. Eileen, il suo primo romanzo, è stato selezionato per il National Book Critics Circle Award, per il Man Booker Prize, e ha vinto il PEN/Hemingway Award. I suoi quattro romanzi successivi, Il mio anno di riposo e oblio, La morte in manoLapvona e McGlue, tutti pubblicati da Feltrinelli, sono stati bestseller internazionali. È anche autrice della raccolta di racconti Nostalgia di un altro mondo. Vive nel Sud della California.


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