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  • Giusy Laganà per Viaggi Letterari

Festival della poesia "Europa in versi": intervista a Maddalena Lotter



Il 19 e il 20 Maggio si terrà presso Villa Gallia di Como il Festival della poesia dal nome "Europa in versi". Per questa occasione ho intervistato, grazie alla Digital PR e addetta stampa Francesca Corrias, due poeti dal nome noto nel panorama dedicato alla poesia. Ho deciso di intervistare personalità diverse e complesse, perché le loro poesie oltre ad essere introspettive, sono legate sempre alla volontà dell'uomo di cercare di vedere oltre semplicemente...



Intervista a Maddalena Lotter

Maddalena Lotter è nata nel 1990 a Venezia, dove vive. E' diplomata in flauto traverso presso il Conservatorio di musica di Venezia e laureata in Lettere all'Università Ca' Foscari; attualmente è specializzanda in filologia moderna e critica letteraria presso l'Università di Padova. Il suo primo libro di poesie si intitola "Verticale" (Lietocolle&pordenonelegge, 2015), è stato presentato al Salone del Libro di Torino ed è stato finalista al Premio Carducci, vincitore del Premio Fiumi e di altri riconoscimenti. Altri suoi testi sono raccolti in diverse antologie cartacee e nelle principali riviste online e siti di letteratura.


Ciao Maddalena, sono Giusy Laganà di www.viaggiletterari.com. Ho scelto te per l’intervista perché ho apprezzato tantissimo che sei una giovane poetessa dove il “viaggio” è un tema metaforicamente presente nei tuoi versi. Siamo quasi coetanee, io sono del 1987, e ti faccio i miei più sentiti complimenti per quello che scrivi e che fai.


1.La prima poesia sulla quale vorrei farti qualche domanda è Pace da Verticale (Lietocolle&pordenonelegge, collana gialla, 2015). Scrivi che la pace è come tenersi pronti per non dire la verità, senza cadere nella nostra immaginazione e nei non luoghi. Non bisogna focalizzarsi sulle nostre “imperfezioni visibili”. In un mondo dove ci si focalizza proprio su queste piccolezze visibili sia in positivo che in negativo, quanto è importante l’immaginazione per salvarci dalla quotidianità?

Cara Giusy, ti ringrazio per avermi proposto quest’intervista. La poesia che tu citi, “Pace”, si trova nella prima sezione del libro; qui l’io che scrive sembra parlare con la voce di un bambino, è il bambino che siamo stati, quando osservavamo la realtà e cercavamo di decodificarla con i pochi strumenti che avevamo allora in nostro possesso. La fantasia e l’immaginazione sono certamente alcuni di questi. I bambini molto piccoli, quando sono interessati a una cosa ma non sanno ancora come si chiama, la indicano. Ecco, a me sembra che nelle prime fasi del suo lavoro il poeta faccia lo stesso: indicare, prima ancora che con le parole, con la vista. Vedere nel mondo qualcosa di profondamente vero. Qualcosa di scomodo. Nella società degli adulti, si insegna al bambino che indicare gli altri è maleducazione e che immaginare di essere stati in luoghi che non esistono è pericoloso. Per questo scrivo nella poesia che “Ti sbagli - dice la madre, non siamo mai andati lì, non esiste. […] si deve insabbiare come gli adulti / che non dicono mai niente. / Non bisogna indicare le persone / le imperfezioni della pelle, meglio sarebbe stare sempre lì / prima dei fatti, sull’orlo dei nervi / tentare la pace”.

In questo senso io non credo che l’immaginazione ci ‘salvi’ dalla quotidianità: la quotidianità non è qualcosa di triste, essa è la vita, solo che è una vita senza immaginazione. Noi siamo qui per aggiungerla, per far vibrare il quotidiano. Quello che dico nella poesia, in fondo, è che l’immaginazione non è una stortura della mente, semmai è un valore, da conservare e da ascoltare.


2. Quanto l’immaginazione crea la fine della pace e viceversa? Quanto conta in tutto questo il mondo adulto che argina la fantasia?

L’immaginazione, come scrivi tu, crea la ‘fine della pace’, sì, se per pace si intende (come io ho inteso nella poesia che ho scritto) una costruzione di regole e di costumi che gli esseri umani hanno assemblato nei secoli per tenere in piedi una società. In effetti, siamo 8 miliardi di persone: se tutte interpretassero la realtà attraverso la lente libera dell’immaginazione, probabilmente vivere nella nostra civiltà sarebbe molto difficile e in alcuni casi pericoloso. E’ per questo che i poeti sono in pochi, e i poeti che rimangono poeti per tutta la vita sono ancora meno. L’immaginazione non è invenzione. Immaginare è lasciare aperto un canale e questo canale lascia passare a sua volta anche alcuni frammenti di grandi verità, che vengono intuiti solo al di fuori della ragione e del ragionamento. Lasciare aperto il canale dell’immaginazione è faticoso e in certi casi può portare l’Io a confondersi, a non riconoscere più i confini, a perdersi. Non che perdersi significhi per forza soffrire, ma significa assumere una postura borderline. Significa spesso vivere ai margini della società, non accettare quella sua ‘pace’.


3. Quanto l’immaginazione crea la fine della pace e viceversa? Quanto conta in tutto questo il mondo adulto che argina la fantasia?

A questa domanda credo di aver in parte già risposto. Aggiungo soltanto che ‘immaginare’, per me, non significa andare in un ‘oltre’: i poeti stanno qua. Anzi, forse sono tra coloro che sono rimasti più ‘reali’ di tutti e non hanno mai costruito alcuna sovrastruttura per vivere. Chi scrive, guarda e registra la realtà senza giudicare e senza reprimere o rimuovere alcun oggetto. Che i poeti fuggano dalla realtà è un luogo comune, semmai i poeti la affrontano, e lo fanno disarmati.



4.Nella tua poesia “Strada” l’immaginazione torna a essere la protagonista. Una figlia obbediente che reprime il suo desiderio di scoperta e la sua curiosità, che oltre la strada non può vedere. Quanto nella bambina che sei stata la tua voglia di immaginare emerge in questi versi?

I tre versi che compongono la poesia “Strade” sono tra i miei preferiti, nel senso che sono un buon autoritratto della me di ieri e di oggi. Fin dall’infanzia sono stata una persona molto curiosa, ma non risolvo la mia curiosità con gli spostamenti del corpo. Mi spiego: nella mia vita non ho viaggiato molto rispetto ad altri miei coetanei che prendono un aereo al mese. Anch’io sono stata in diversi posti, anche in posti ‘estremi’ come il deserto, il mare aperto, le zone tropicali, ma è stato sempre molto faticoso perché tendo a vivere ogni esperienza in modo assoluto: partecipare al deserto è stata un’esperienza fortissima, immergermi nell’oceano Pacifico quando sono stata in Messico mi ha tolto il fiato. Avevo cinque anni e credo di non essermi ancora ripresa. La forza e l’altezza di quelle onde su di me hanno lasciato un segno per la vita. Per questo nella poesia scrivo “Oltre la strada non si doveva andare / e io che ero la figlia obbediente, / a me che immaginare è sufficiente”, perché spesso, viaggiando con tutto il corpo, spostandomi realmente insomma, ho vissuto delle sensazioni talmente forti che devono aver smosso in me qualcosa di molto profondo e di antico. Quando viaggiamo incontriamo sempre il passato dell’uomo, la sua storia, non solo di fronte ai monumenti ma anche di fronte agli elementi naturali. Per me questo incontro è sconcertante. Anche soltanto montare su un treno per spostarsi di 20 km può aprire una voragine: vedere gli altri, percepire le loro vite, i loro vissuti. Che potenza! Devo andarci piano. Dovevo da bambina e devo oggi da adulta.


5.In “Teste” descrivi un uomo dal forte temperamento che caccia e uccide cervi, ma che poi ha una famiglia normale come tutti. Solo leggende a descrivere un uomo che invece è comune come chiunque altro. Quanto le leggende spesso per te e nei tuoi versi raccontano qualcosa che maschera la realtà e che oscura la nostra percezione? Quanto di noi, difficili e complicati esseri umani, il ruolo che ricopriamo contribuisce a crearne un personaggio dalle mille maschere pirandelliane?

La poesia “Teste” racconta di questo cacciatore che nella sala da pranzo tiene appese le teste di cervo, che sembrano stare lì, sospese, con l’occhio che guarda il vuoto, come incantate da una magia. Immagine sinistra. Poi però quel cacciatore ha una famiglia normale, nella poesia scrivo che mi invita a sedere nella sua sala dei cervi e mi serve da mangiare e allora anche a me sembra che quella situazione, improvvisamente, sia diventata normale. La realtà in questo caso è confusa perché intervengono due modi di percepirla: c’è la vita dei fatti e c’è la vita narrata dei fatti. Quando noi narriamo le vite degli altri, immediatamente le rendiamo in qualche modo leggendarie; aggiungiamo particolari, impressioni, sensazioni e giudizi che fanno sì che la realtà si arricchisca a non finire. Io faccio spesso così. Quando racconto qualcosa ad altri, mia madre scherza dicendo di ascoltarmi con cautela, perché “Maddalena amplifica sempre tutto”.

Le storie amplificate però non oscurano la realtà: ne mettono in luce semmai alcune sfumature che altrimenti rimarrebbero sullo sfondo, come sullo sfondo troppo spesso rimangono le teste mozze dei cervi, mentre siamo concentrati sul nostro pranzo. Intanto però quelle teste sono sospese sopra di noi e sussurrano qualcosa, recano un indizio.


6.Nel tuo inedito invece racconti la crudeltà umana. Quanto la poesia esprime rabbia e infligge punizione al genere umano? Quanto dovrebbe aiutarci per essere migliori?

Non credo che la poesia esprima rabbia. La rabbia è un sentimento istantaneo, come la paura; la poesia invece è qualcosa di meditato. La scrittura effettivamente può ‘infliggere punizioni’ nel senso che lascia un segno: scrivere significa segnare la carta e le cose che vengono scritte si impongono, rimangono.

Non penso che la poesia aiuti le persone a essere ‘migliori’, penso che le aiuti a conoscersi e a collocarsi. La poesia non è educata e non educa, ma, come disse Eraclito a proposito dell’oracolo: dà cenni.


Ti ringrazio molto per la tua disponibilità e grazie per le tue bellissime poesie che personalmente ho apprezzato molto.

Il festival della poesia vi aspetta a Villa Gallia!!!!

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